Tuina dei campi concentrici

Ferite maestre

Le foto che vedete sono prese dal mio giardino: stessa stagione, stesso giorno, stessa ora. E anche la pianta è la stessa, la dolcissima ma robusta Lippia nodiflora, rigogliosa a sinistra, sofferente a destra. In alcuni punti la componente argillosa del terreno ha avuto il sopravvento e la Lippia, tenace in estate e in inverno, ha continuato a gettare ponti (li vedete i fusti sopra il vuoto?) tra un lembo e l’altro: sembrano suture per cercare di coprire anche la terra più arida.

Questa estate è stata dura, per la natura e per noi. Nel giardino della nostra vita quotidiana, nello stesso giorno qualcosa fioriva e qualcos’altro sanguinava. L’aridità non è stata solo climatica, molti si sono dovuti confrontare con il vuoto della terra e del cielo. Penso a una mia cliente che ha compiuto il grande passo verso un’altra dimensione a poco più di sessanta anni, dopo una battaglia di dieci lunghi mesi. Penso alla figlia, incredibilmente aperta e forte (due qualità che si rendono vere a vicenda), che ha sempre combattuto al suo fianco e ha dovuto fermarsi e confrontarsi con questo spacco dentro l’anima. Una di quelle donne, e ce ne sono tante, così forti per gli altri che non si possono permettere di essere deboli. 

Da quella ferita nella terra si può capire che cosa “sta sotto” (in latino sub stare, da cui deriva il termine sostanza), si può capire che lo strato superficiale di terreno non era abbastanza, che occorre nutrire più in profondità, o fare ombra con un arbusto, perché nonostante il nutrimento, l’esposizione al resto è tale che poco rimane per noi. Ecco, parlo e continuo a sovrapporre i piani… In effetti per me non c’è differenza tra un giardino e un essere umano, noi siamo un terreno da coltivare, noi siamo una pianta destinata a fiorire, noi dobbiamo prenderci cura di noi stessi.

Ogni ferita è anche una feritoia, un accesso da cui sbirciare. Mentre si soffre possiamo distrarci dal dolore e curiosare in quel piccolo spazio che rompe la membrana con cui ci muoviamo nel mondo. È un sapore strano, un po’ amaro un po’ dolce, il sapore della verità. Spesso non si sa distinguerlo, non sappiamo se ci piace o no, proprio come fanno i bambini quando assaggiano qualcosa per la prima volta. In un mondo di continue assimilazioni all’abitudine e al conformismo, a volte solo nel dolore riusciamo a stupirci di noi e delle nostre reazioni. È un’occasione da non perdere. L’avremmo certamente voluta evitare, ma una volta dentro, la possiamo sfruttare a nostro vantaggio. Capita poi che, più quanto accade è grande, più è facile passarci in mezzo, quasi fosse una porta verso un’altra fase della vita, in attesa di attivarsi con una precisa reazione alchemica.

A chiunque abbia perso qualcosa o qualcuno, in questa estate del Coniglio nero, dedico questo articolo con l’augurio che, come l’instancabile e umile lippia, torniate presto a fiorire.